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… ma come
si fa la rivoluzione?
giannantonio spotorno
Il
termine “rivoluzione” indica più cose, ma qui ci riferiamo al senso di
un movimento organizzato e violento attraverso il quale s’instaura un
nuovo ordine sociale e politico.
La
storia ci ha consegnato molte pagine rivoluzionarie nate da opposizioni
a regimi palesemente dispotici, ma inneggiare alla rivoluzione in
periodo di democrazia, è cosa assurda.
La
nostra diviene ogni giorno di più la società dell’apparenza ed è dunque
difficile che possa esprimere una democrazia vera ma anche in una
democrazia finta, parlare di rivoluzione è cosa complessa.
Del
resto - chissà quanti anatemi mi tirerò addosso - i sedicenti
rivoluzionari dell’ultimo mezzo secolo della nostra storia, hanno
“abbaiato” tanto senza concludere nulla … e, circa gli abbai, gli anni
in corso non sembrano invertire rotta.
Credo
che Edmund Burke abbia avuto ragione nell’affermare che la rivoluzione
necessita tanto di razionalità e preparazione, quanto di sentimento e
spontaneità; anzi, aggiungerei nel massimo dell’umiltà, che in ogni
rivoluzione il primo a muoversi è il sentimento, ma se subito dopo non
arriva la razionalità, allora la rivoluzione non conoscerà il successo.
Furono, di fatto, proprio il razionalismo e il sentimento che portarono
a quella grande rivoluzione che diede una nuova alba all’ordine sociale
dell’Europa passando sotto il nome di Illuminismo.
Nulla
si muove senza la cultura e meno che meno la libertà!
Non
possono esistere rivoluzionari veri intellettualmente impreparati … ve
lo immaginate un Vladimir Ilyich Ulyanov, al secolo Lenin, privo di
cultura, di capacità tattica, di concetti evoluti o di facilità di
comunicazione? E come non capire che l’Umanesimo, forse la più grande
rivoluzione della storia, abbia avuto un tale carico d’intellettualità
da riuscire a porsi in essere perfino a prescindere dalla violenza?
Una
società che, pur calata nelle difficoltà del vivere, si trova in
un’atmosfera di sufficiente serenità, non è esposta al germe
rivoluzionario.
Le
difficoltà del vivere devono però essere intrinseche ovvero imputabili
al Padreterno, alla natura o al destino; se invece sono generate da
uomini che approfittano di altri uomini, magari organizzati in un
perfido potere politico protetto dal paravento di leggi e istituzioni
inique, allora iniziano i guai; in questo caso, la difesa
dall’oppressione è legittima forse anche dal punto di vista
dell’infinita bontà del Padreterno.
Lungi
dal volerci affaticare per capire il senso vero delle cose, comprese la
libertà e la cultura, noi preferiamo assumere come certezza la
superficialità, ma quando i punti di riferimento sono deboli, allora è
debole la società nel suo insieme.
Mi
viene in mente, senza farla “intellettualmente lunga” che Solone, già
nella Grecia prima di Cristo, affermava che la legge è come una
ragnatela, essa si lascia infrangere dai soggetti grossi e potenti
mentre i deboli vi s’impigliano.
Le
norme sono prodotti umani e come tali non possono essere assolute, la
società le osserva, ma quando divengono palese strumento d’iniquità,
allora nasce il malcontento.
Il
Popolo è per sua natura come un lento pachiderma e bisogna davvero
fargliene tante per esasperarlo, ma quando s’insiste oltre il buon
senso, allora esso scopre il sentimento rivoluzionario.
Ritornando, però, a Burke, il solo sentimento non basta e non c’è
rivoluzione finché esso si manifesta attraverso mille proclami che non
sanno darsi corpo e forma; ma quei proclami esprimono sofferenza e se
l’oppressione insiste, allora la sofferenza chiede alleanza tra
sentimento e razionalità.
Non so
dire se la rivoluzione sia bella o brutta, giusta o ingiusta,
giustificabile o meno, ma la storia può renderla inevitabile e tale
caratteristica dipende solo dall’ingordigia, la megalomania o la
semplice imbecillità dei governati. |